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Mio nonno era un emigrante

Pubblicato: marzo 22, 2014 in Uncategorized
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L'emigrante di A. CarusoMia mamma mi racconta che nel 1943, nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, mio nonno, Agostino Chemello, classe 1927, partì nemmeno sedicenne da Molvena, provincia di Vicenza.
Racconta, mia mamma, che quando anni dopo gli capitò di accompagnarlo a Verona in una delle sue periodiche visite all’ospedale di Borgo Roma, le ricordò di quando decenni prima arrivò per la prima volta a Porta nuova: era senza scarpe, senza soldi, solo con una valigia di cartone legata con lo spago, piena di pochi stracci diretto verso il Piemonte, nella bassa vercellese, perché alcuni suoi compaesani lavoravano come braccianti nelle risaie.
Fu una delle prime tappe di un lungo viaggio da emigrante: dopo Vercelli, andò a Macugnaga in miniera, poi in Svizzera, in Belgio, in Africa e infine ancor in Svizzera dove una notte per coprire il turno di un suo collega, si attardò qualche minuto di troppo in galleria. Quella notte una mina scoppiò. Era diventato capo squadra e per questo fu l’ultimo a lasciare il luogo dell’esplosione, ma non fece in tempo e ci rimase sotto. Non morì, ma non fu più lo stesso.
Mio nonno era un emigrante. Io sono nipote di un emigrante e quando mia mamma parla della sua storia, le sue guance si rigano ancora di lacrime e i miei occhi diventano lucidi.
‘Gustin, così lo chiamavano, era un uomo rude, figlio della fame, della carestia e della guerra. Passò una vita di stenti, di privazioni e di fatiche.
Morì che non avevo compiuto ancora sedici anni, ma nonostante questo, non ricordo moltissimo di lui perché, a fine anni settanta, tornò nella sua terra, in Veneto, in mezzo a quella campagna che non era stata in grado anni prima di sfamare i suoi figli. Lo sentivo al telefono quasi tutti i giorni. Nonostante avesse passato la maggior parte della sua vita lontano dalla sua terra, parlava solo in dialetto veneto, un dialetto strettissimo che solo un orecchio allenato poteva intendere.
Mi ricordò quando una volta mi raccontò che una delle cose più difficili fu sopportare i continui soprusi che riceveva dagli svizzeri.”Sporco italiano” gli dicevano, e mentre lo dicevano giravano la testa e sputavano in senso di disprezzo.
Mio nonno aveva un fratello, lo zio Giuseppe, anche lui minatore nelle miniere di carbone del nord della Francia, vicino al confine con il Belgio. Lui non tornò più in patria, morì nel 1988 in un paesino delle Ardenne.
Questa è una storia, una delle tante di noi italiani. Credo che siano poche le persone che non abbiano parenti che lasciarono il proprio paese per cercare fortuna o, meglio, per scappare dalla fame.
Lo so, oggi l’Italia è stremata, in ginocchio a causa di una crisi lunghissima. Oggi, come decenni fa, molti italiani lasciano il proprio paese e vanno all’estero nella speranza di trovare un futuro migliore. Ma oggi, molti uomini e donne lasciano i propri villaggi e si dirigono verso l’Italia perché perseguitati dalla fame, dalla guerra, dalla carestia. Popoli che vanno, popoli che vengono. E’ la storia dell’umanità. E’ la nostra storia.
Non credo che i miei figli vivranno per sempre in Italia, forse, in fondo , non glielo auguro nemmeno. Spero, tuttavia,  che possano lasciare il loro paese in modo dignitoso, ma il futuro non lo conosce nessuno, nemmeno quelli che vorrebbero dare fuoco a quelle quaranta persone che sono ospiti in Ossola.
Ricordo che il futuro è ignoto anche per loro e per i loro figli e che la situazione che stanno vivendo quelle persone le potrebbero vivere loro oppure i loro figli. Non è un augurio, ma un ammonimento.