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ostacoliMatteo Renzi sta cambiando la politica italiana e dal 25 maggio sta tentando di cambiare anche quella europea e, stante le notizie delle ultime ore provenienti dalla Germania, sembra che ci stia riuscendo.
E’ difficile dire se alla fine riuscirà in questa impresa, ma sicuramente da quando ha vinto le primarie lo scorso 8 dicembre diventando prima segretario nazionale del Pd, poi Presidente del Consiglio, la politica italiana ha preso un’altra piega.
Quello che mi domando è se questo è sufficiente per cambiare verso al paese.  Cerco di spiegarmi meglio, è sufficiente la verve e la forza di Renzi per cambiare il modo di intendere la politica e gli obiettivi che questa si propone su vasta scala? Da Roma alla periferia?
Se, come scritto, l’azione del Governo Renzi sta spingendosi fino alle stanze fredde di Bruxelles, non so se quest’azione si sta sviluppando con altrettanto vigore verso il basso, nelle province, nei comuni.
Sembra che ora tutti siano diventati più o meno renziani o, come sostiene qualcuno in modo simpatico, diversamente renziani. Ma cosa significa essere renziani?
Innanzitutto, questa definizione, se mi piaceva qualche mese fa, oggi la trovo superficiale e superflua. I democratici che si sono spesi per sostenere Matteo Renzi  alle primarie del 2012, avevano tre obiettivi principali: quello della rottamazione, ossia del ricambio che doveva essere non solo, ma soprattutto generazionale, il  cambio radicale del modo di fare politica, da cerimonioso e chiuso a pratico e aperto alla società, la trasformazione del Pd da un partito concentrato soprattutto sul mantenimento dello status quo, quindi fondamentalmente conservatore, ad uno in grado di raccogliere la sfida del futuro, delle nuove generazione, trasversale e veramente riformista.
A livello nazionale, tutto questo è avvenuto o sta avvenendo. Anche a quel livello i trasformismi sono molti, ma la presenza di Renzi garantisce lo sviluppo del processo.
Si può dire la stessa cosa dei livelli locali? Qui la situazione è più complicata perché le vecchie oligarchie si sono affrettate ad appoggiare l’azione di Renzi, anche perché ne hanno tratto e ne stanno traendo beneficio, ma fondamentalmente vivono la politica e l’amministrazione nello stesso modo di sempre.
Si guarda sempre agli stessi mondi, anche perché la società fuori dal Pd non capisce come possa essere credibile quel sig. Rossi, sindaco del comune Pinco Pallino, che fino a ieri era l’avversario numero uno di Renzi e dei renziani, difensore incallito del settore pubblico in generale, di ogni comune, provincia o ente frutto della partecipazione democratica degli anni d’oro della politica partecipata, diffidente verso le imprese e i padroni in generale, sindacalista oltranzista e rivoluzionario, ma fondamentalmente inciucista e pronto a dividere le sedie dei consigli di amministrazione di tutte le partecipate possibili. E anche se, magari, nel suo comune è riuscito ad essere rieletto perché fondamentalmente è stato ed è una persona che difende la propria piccola comunità, alla faccia di quell’elettore che vede in Renzi e nel Pd di Renzi una speranza,  il sig. Rossi resta un corpo estraneo di cui diffidare. E a ragione, dico io.
E’ ovvio che se questi rimangono casi isolati, tutto rientra in un processo di normale trasformazione dove la posizione del Sig. Rossi diventa anche, paradossalmente, utile per tenere tutto insieme. Ma se al sig. Rossi, si affianca anche il sig. Bianchi, la sig. Viola e tutti coloro che fino a ieri erano sodali nella lotta contro il rinnovamento e alla politica veramente riformatrice, il rischio è che dal basso si creino tanti piccoli ostacoli che potrebbero rallentare il processo di cambiamento, ostacolarlo, insomma boicottarlo per confermare uno dei teoremi più veri della storia italiana quello che afferma che tutto cambia per non cambiar niente.
E’ così anche nel Vco? Secondo me, sono altre le realtà che rischiano di più, soprattutto quelle realtà dove il Pd ha gestito di più il potere nel corso degli anni, o dove i processi di cambiamento anche all’interno del partito democratico sono stati più lenti. Nella nostra provincia il gruppo dirigente si è confrontato in modo anche duro nel corso di questi anni, è riuscito a cambiare, a rinnovarsi, ma anche a mantenersi unito nelle sfide decisive. Insomma, quello che è avvenuto nel Pd del Vco non è stato una lotta per il potere, ma un dibattito politico franco dove i meriti sono stati sempre premiati, dove le competenze valorizzate tanto che gli elettori ci hanno dato ragione a partire dalle elezioni politiche del 2013. Qui, più che altrove, si ha la certezza che il cambiamento sia necessario, che le riforme siano un punto fondamentale non per continuare ad avere il consenso degli elettori, ma per far crescere un territorio che negli anni è rimasto indietro. Troppo indietro.
Quindi non esistono sig. Rossi? Sì, esistono e non vanno sottovalutati ed è per questo che come mi ha detto un compagno che stimo molto, è ora di chiarire chi ha vinto e chi ha perso. Chi ha perso, ha perso e non può pensare che nulla sia successo anche se è tornato a fare il sindaco del comune Pinco Pallino! Chi non ne ha imbroccata una in questi anni, agirà sempre con il freno a mano tirato perché fondamentalmente non ci ha mai creduto e mai ci crederà

Provincia senza soldi

Pubblicato: febbraio 13, 2013 in Politica locale
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cotajpgOggi la Stampa locale riporta la notizia che la Regione Piemonte non è più in grado di trasferire le risorse alle province per coprire le spese che le stesse impegnano per garantire alcuni servizi.
Insomma, le province sono salve, il Vco esiste ancora, ma di soldi non se ne vedono più.
Ricordo ancora le immagini dei leghisti con le magliette che celebravano l’aumento delle risorse derivanti dei canoni Bim per la nostra provincia. Qualcuno ci può dire se quei soldi la Regione li sta ancora trasferendo?
Intanto, molte ditte che lavorano per la Provincia sono sul lastrico tanto che non riescono più a garantire nemmeno lo stipendio ai loro dipendenti.
E’ evidente che la situazione è drammatica.
Avere una provincia senza soldi non serve a nulla, se non a qualcuno per altri motivi, non certo quelli dell’autonomia.

 

Da ieri è iniziata la festa democratica della Lucciola a Villadossola che mi vedrà occupato fino al 16 agosto a friggere pesci per le centinaia di persone che, come ogni anno, ci vengono a trovare indipendentemente dalla loro fede politica.
In questi giorni di preparazione non ho avuto modo di approfondire le notizie relative al futuro amministrativo della nostra provincia, ma mi sembra che il dibattito sia molto acceso e interessante. Va detto, tuttavia, che almeno in apparenza non sembra appassionare molto i cittadini comuni, limitando questo dibattito agli addetti ai lavori: amministratori e politici.
Riassumendo a sommi capi, direi che al momento possiamo individuare questi seguenti gruppi:
– gli irriducibili , quelli che difendono ad oltranza l’attuale provincia contro tutto e tutti;
– i nostalgici, quelli che vorrebbero tornare ai vecchi confini pre 1992 della Provincia di Novara;
-i sabaudi, quelli che vorrebbero tornare alla provincia di Novara dell’allora stato Sabaudo con Novara, Biella, Vercelli e Vco;
– gli svizzeri, quelli che è meglio unirsi al canton Ticino e poi magari diventare un cantone indipendente;
– i lombardi, quelli che auspicano una mega provincia che comprenda il Vco, Novara, Varese, Sondrio, Como e Lecco, tutti sotto il Ducato di Milano;
– gli abolizionisti, quelli che non parlano di confini perché vorrebbero abolire tutte le province.
Come potete leggere, la confusione regna sovrana e le proposte in campo, al di là dell’ironia sono molteplici e molte hanno elementi stuzzichevoli.
Secondo me, le proposte che sono più in linea con il momento che viviamo sono due: quella sabauda che porterebbe alla rinascita della provincia di quadrante e che al momento è quella che ufficialmente ha fatto l’Unione delle Province piemontesi  insieme al Governatore Cota e quella lombarda che è sicuramente la più  affascinante, ma anche la più complicata e che dovrebbe essere anticipata, a mio modo di vedere, da una riforma anche dei confini delle regioni attuali che per il momento non sembra essere all’ordine del giorno. Sono anche dell’idea che in qualche modo debbano essere i cittadini a poter decidere, in fondo siamo ancora una democrazia e non ci vedrei nulla di male se una scelta di questo tipo fosse in capo al “demos” anche se potrebbe uscire la linea abolizionista che poi è quello che è successo in Sardegna questa primavera.
Chiudo con una provocazione ironica. E perché, fra questa miriade di proposte,  non chiedere che il Verbano Cusio Ossola diventi il 51° stato degli Stati Uniti d’America?

Finalmente il governo, prima con il decreto della spending review e poi con l’ individuazione dei criteri, sembra aver individuato il percorso per il riordino della province. Ed ecco che immediatamente si sollevano le voci in difesa della provincia del Verbano Cusio Ossola.
Forse ci dimentichiamo che se l’Italia è sull’orlo del fallimento lo deve anche a politiche che negli anni precedenti sono state miope e che hanno comportato solo l’aumento della  spesa pubblica senza una reale ricaduta sull’efficienza dei servizi. Un ente pubblico deve essere valutato per i servizi che offre ai cittadini e non per l’occupazione che crea. L’occupazione la deve creare il privato magari con la collaborazione degli enti pubblici che lo dovrebbero accompagnare nel mondo difficile della concorrenza.  Il richiamo della Lega Nord ai sindacati è quanto di più patetico abbia letto in questi giorni! Per fortuna le risposte di CGIL CISL e UIL sono state tutte all’insegna della preoccupazione, ma non delle barricate.
La difesa della nostra provincia mi sembra sia veramente fuori luogo e fuori tempo massimo. In venti anni nessuno, né a destra né a sinistra, è riuscito a dare una vera identità alla provincia azzurra. Forse si dovrebbe fare un po’ di autocritica e chiedersi perché quando si trattò di riformare le comunità montane anziché prendere i forconi contro il ministro Lanzillotta, non si chiese di trasferire tutte le funzioni delle allora 10 comunità montane alla Provincia.
Sono convinto che oggi il vero problema sia quello di salvare l’Europa e quindi l’Italia, l’economia del nostro continente. Sinceramente, la sopravvivenza della provincia del Vco non mi scalda molto il cuore.
Quindi, dato per scontato il superamento dell’attuale assetto, si tratta di valutare quale sarà il futuro. Ebbene, credo che il progetto della provincia di quadrante sia quello più corretto e verso questa prospettiva dovremo lavorare in modo che siano garantiti servizi ai cittadini più efficienti.

Il dibattito sulla vita o la morte della nostra provincia, il Verbano Cusio Ossola, continua ad alimentare il dibattito degli amministratori e della politica locale. Meno dinamismo e preoccupazione credo sembra esserci nei cittadini che, colti da altri problemi, pensano che il superamento di questa provincia non sia poi così drammatica come qualcuno vuole dipingerla.
Certo, se ci voltassimo indietro troveremo molto serie le ragioni che spinsero l’allora classe politica di questo territorio a chiedere la nascita della provincia azzurra.
Alcune di quelle motivazioni sono ancora presenti, ma forse bisognerebbe guardare a quello che abbiamo oggi di fronte.
Qualche sera fa, un amministratore di lunga data, persona colta e da me stimata, ha affermato che il Vco serve ancora, oggi più di ieri, ed ha elencato i motivi per cui il vco era nato: per stare vicino ai cittadini e alle imprese del territorio, per snellire la burocrazia provinciale di Novara, per costruire una nuova classe dirigente, per razionalizzare le spese, magari dando maggiori funzioni alla stessa provincia partendo dalle Comunità Montane, dall’acqua, al turismo ai rifiuti. Insomma si sarebbe dovuto fare molto, ma non si è fatto.
In modo onesto, ha riconosciuto che un po’ di responsabilità è anche loro.
Credo che se oggi la soppressione del Vco come ente istituzionale è lontano dalle coscienze dei cittadini è perché la stessa classe dirigente che ha voluto la provincia non ha fatto quello che l’amministratore di cui sopra avrebbe voluto fare. Credo che, nel corso degli anni si sia perso l’obbiettivo. Abbiamo avuto anche molte possibilità. Ricordate quando si parlò dell’abolizione delle comunità montane? Ebbene, quella poteva essere l’occasione per questo territorio di dire, cara Regione noi siamo una provincia montana e per questo crediamo che le deleghe delle comunità montane, debbano essere trasferite alla provincia.
E l’ospedale unico? Anche quella volta prevalerono logiche campanilistiche e politiche e si scelse di puntare sull’ospedale plurisede anziché sull’ospedale nuovo e unico. Forse, come è successo in altre realtà piemontesi, non si sarebbe comunque fatto per mancanza di fondi, ma almeno la classe dirigente avrebbe dato un segnale forte di coesione, sottolineando le ragioni del nostro stare insieme. Sfidando, magari, anche l’opinione pubblica che a volte è spinta più dall’istinto che dalla ragione.
E che dire della programmazione del territorio? Quanti palazzetti abbiamo, quanti musei dei mulini ci sono? E l’ultima trovata del teatro di Verbania? 168.000 abitanti, due teatri???
A me sembra che il Vco sia come il pensiero aristotelico sul concetto di atto e potenza. Per potenza si intende la possibilità, da parte della materia, di assumere una determinata forma. Per atto si intende la realizzazione congiunta da tale capacità. Ebbene, la provincia del Vco era ed è ancora una possibilità, ma credo che ormai sia scaduto il tempo.
Infine, una considerazione sulla proposta di Campanini, segretario provinciale della Lega, quando afferma che dovremo rivedere i confini del Vco estendendoli fino ad Arona e comprendendo tutto il Cusio. Ancora una volta,la Lega Torino dice una cosa e a livello locale né afferma un’altra. Se la questione è solo dei confini, questi dimostrano di non capire assolutamente nulla. La soluzione che è emersa della provincia di quadrante è l’unica che tiene insieme alcune esigenze. Sta a noi costruire quel soggetto facendo in modo che il Vco continui ad avere una sua specificità. E’ la sfida di un territorio e speriamo di una nuova classe dirigente che magari riesca laddove qualcun altro ha fallito.